Ludus Magnus
« Ciò da cui parte normalmente l’indagine storica per giungere allo “spirito”
      di Roma,
  
    ossia il documento, l’annale, il rudere, l’epigrafe,
  
  
    va considerato il simbolo di un limite alla conoscenza della
      “perennità” di Roma.
  
  
    Sino ad oggi non è stata conosciuta che la Roma esteriore-storica,
  
  
    ossia fossilizzata in un passato in cui viene proiettata la nostra mentalità “moderna”
  
  
    che non sa concepire il tempo privo di spazio.
  
  
    Una simile conoscenza non solo non può attingere quella perennità,
  
  
    ma autorizza ogni genere di retorica.
  
  
    La Roma dello spirito tace dunque impenetrabile
  
  
    dietro la serie dei templi, dei monumenti, delle istorie,
  
  
    i quali adombrano un limite che non è posto perché venga trasformato in storia e in cultura,
  
  
    ma per essere superato entro se stessi, nell’intimo dell’anima,
  
  
    ossia là dove veramente esiste.
  
  
     Ciò può aiutare a comprendere come l’“eterno” che passa per Roma
  
  
    non sia a questa riducibile, ma la trascenda,
  
  
    pur dando il modo di intuire come attraverso essa, grazie al suo
      sacerdozio operi ».
  
    in un suo articolo a titolo “Roma” che apparve su « I Nostalgici »
  
  
    è senza dubbio quell’alta ispirazione mistico-misterica
  
  
    che guidava uomini come Numa Pompilio, le sacre Vestali,
  
  
    i flàmini officianti nei primi sacelli eretti al culto, come quello di Diana sull’Aventino.
  
  
    Quella stessa ignota energia accordava le facoltà divinatorie agli àuguri,
  
  
    alle varie sibille e camène che abitavano in grotte, nei boschi o presso le fonti.
  
  Chi volesse captare oggi tracce di quell’arcano fluire,
  dovrebbe condurre una difficile operazione archeologica,
  scavando attraverso i molti strati delle sedimentazioni culturali
  che si sono sovrapposte nei secoli, fino a raggiungere il punto sorgivo di quella forza.
  Meditando, magari,
  nei luoghi dove i varchi tra la realtà fisica e quella sovrannaturale
  piú facilmente si aprivano: la Valle delle Camène,
  dove Numa incontrava la ninfa Egeria e le vergini indovine vaticinavano cantando,
  è ormai deturpata dal gravame dei secoli
  e dal piú intollerabile oltraggio dell’incuria umana.
  Si salva in parte l’Aventino, grazie ai cori vespertini dei monaci di Sant’Alessio,
  alla vigilanza discreta ma ferrea dei Cavalieri di Malta
  e alle armoniose evoluzioni degli allievi dell’Accademia Nazionale di Danza.
  Piú adatto a metafisiche evocazioni è certamente il Palatino.
  La sua destinazione ad area archeologica privilegiata e protetta lo
    ha mantenuto indenne dalle aggressioni edilizie. In virtú di questa sua prerogativa tutelare,
    il Colle è in grado di offrire a chi lo visita i resti che vanno dalle capanne
    proto-laziali alle illustri dimore imperiali di Augusto e Livia.
  Qui, tra cospicui avanzi del passato, cui fanno da corollario e decoro alberi, erbe e piante
    spontanee, si rifugiano uccelli di ogni sorta per sottrarsi alle
    bordate impietose dei cacciatori che hanno ormai del tutto saharizzato
    la campagna laziale con le loro intemperanze venatorie.
  In quest’oasi spazio-temporale, il rumore della città frenetica si riduce a
    un brusío ovattato, come di remote voci, di antichi suoni e
    tonalità profonde che, mischiati al vento, in un’onda compatta
    s’impennano contro le dirute ma tenaci rovine, sommergono colonne e contrafforti,
    s’insinuano sotto gli archi vertiginosi superstiti ai crolli.
  È questo forse il soffio di quello spirito di cui parla il Maestro. Ma quanti tendono
    l’orecchio e il cuore per ascoltarlo e decifrarne i reconditi messaggi ? Non
    bastano certo gli sparuti manipoli di giapponesi, di figli del Nord teutonico
    e anglosassone, e di rari turisti di casa nostra. Vanamente si
    offrono perciò allo sguardo di inesistenti fruitori del mistero i mosaici
    a cielo aperto, gli stucchi e i rilievi delle domus augustana e transitoria, le tinte ormai quasi eterizzate degli affreschi nella Casa di Livia.
  Dove sono allora le grandi folle assetate dello spirito antico di Roma ? Altrove sciamano le masse
    vogliose di forti emozioni, disposte a cadere preda della sindrome
    di Stendhal. Cercano lo spirito della Roma consacrata dal cinema e
    dalla letteratura tardo-romantica e celebrativa dei fasti imperiali, l’Urbe della parabola calante, le cui rovine esalano un’aura di intrighi
    e veleni, di crudeltà e potenza, di dominio e prevaricazione.
  Le troverete perciò incolonnate in file tortuose e interminabili, davanti alla Domus Aurea
    considerata, in ossequio ai luoghi comuni che circondano la figura
    di Nerone, null’altro che il delirio edilizio di un folle megalomane
    e non, come era in realtà, la prodigiosa realizzazione architettonica
    con la quale Lucio Domizio Enobarbo, ovvero Nerone, prima che
    imperatore poeta, tentò di riprodurre nella graveolente e crassa Roma decadente
    l’armonia idillica e sublime dell’Arcadia ellenica.
  Ma in schiere ancora piú folte e determinate, possedute da un vero
    e proprio raptus emozionale, le troverete in coda fuori del Colosseo.
    È in programma “Sangue e Arena”, una mostra che offre ai fortunati visitatori che riescono a entrare un panorama esauriente del mondo e delle imprese dei gladiatori: il
    famigerato Ludus Magnus, il grande gioco di spettacolo e morte che per ben cinque secoli ha riempito l’immensa cavea di questo anfiteatro.    
   Per la sua inaugurazione, avvenuta nell’80 d.C. vennero indetti giochi che durarono cento giorni, durante i quali restarono uccisi novemila
    animali e cinquemila tra gladiatori e figuranti.
  
  Nelle sale espositive, ricavate dai vestiboli del piú grande circo dell’antichità, è possibile ammirare armi, strumenti, fondali e macchinari necessari
    ad animare i duelli, le cacce, le naumachie, le allegorie mitologiche,
    in cui però eroi e furfanti morivano sul serio: strazio, urla e sangue
    non in funzione scenica ma in crudo e palpitante realismo.
  Contraddittoria creatura, l’uomo. A parole esecra la crudeltà, la violenza e la strage, ma
    nei fatti ne tesse l’apologia, celebrandone, quando gli si offre il destro, riti e liturgie. Somiglia alla falena, che sa come la fiamma
    da cui è sedotta la brucerà, e tuttavia se ne lascia sedurre e
    catturare per morirne.
  Non è improprio dedurre da questo atteggiamento autodistruttivo un estremo, letale narcisismo, una
    libidine per tutto ciò che priva l’uomo della vita dopo avergli inflitto sofferenze e angosce. E forse tutta la sua filosofia e sapienza, elaborate in millenni, piú che insegnargli a creare e mantenere la vita, lo hanno reso maestro nell’esercizio delle armi
    e della distruzione. Qui egli ha raggiunto livelli di eccellenza:
    saper morire, questo sembra essere il motto dell’umanità che si affaccia al nuovo
    Millennio.
  È in atto una guerra, una delle tante che gli uomini combattono da sempre, non avendo altre risorse
    morali e intellettuali per dirimere le loro contese. E mentre la scatenano, la combattono e vi perdono vita e dignità, i media dettagliano con sommo compiacimento le forze in campo, i loro
    armamenti, lo scenario delle operazioni, con linguaggio zeppo di
    tecnicismi specificano il calibro e la gittata dei cannoni, l’autonomia e
    il raggio di azione di aerei, navi e sommergibili, la potenza
    devastatrice ma sapiente di bombe e missili. Spesso la specificazione di dati,
    cifre e sigle arriva alla mania, una spirale delirante in cui si avvitano
    le nostre aberrazioni, antiche quanto il mondo. Risuonano gli imperativi categorici di sempre: «Tabula rasa»,« Ferro e fuoco »,« Delenda Carthago »,« Sangue e arena ».
  Contagiati da simili umori, i nostri bambini maneggiano giocattoli che imitano
    perfettamente le armi e i congegni di morte che gli adulti usano nella
    realtà, facendo cosí tirocinio per quando dovranno, da grandi, adoperarli
    a loro volta, adeguatamente perfezionati.
  Le parole del Maestro citate all’inizio denunciano l’inganno che insidia l’uomo da sempre: cercare lo spirito, vale a dire l’essenza delle cose, attraverso la loro fisicità. Ciò vale sia per i valori di Roma
    antica sia per ogni altro approccio agli oggetti e fenomeni della
    nostra realtà. Se riusciamo a  trascendere la materialità contingente
    delle reliquie di una delle piú grandi civiltà umane, forse saremo anche
    in grado di carpirne i dettami autentici di universalità che essa
    ha lasciato in retaggio al mondo, cosí come penetreremo ogni altro
    segreto che ci verrà incontro.
  Operando diversamente, il culto delle forme, spinto al parossismo dell’idolatria, ci farà credere – altro supremo inganno – che la morte sia la fine di
    tutto, e che tutto, piacere, dolore, bellezza e amore, siano esito e
    frutto unicamente della corporeità nella sua espressione vitale. Oltre di
    essa è il nulla. Saremo portati pertanto a credere che, imprigionando, torturando, menomando e uccidendo il nostro nemico fisicamente
    lo vinciamo in toto, anche animicamente e per sempre. E fatalmente
    cadremo anche nell’estrema trappola tésaci dal Male: ritenere che
    attraverso la sua fine corporea lo si possa vincere definitivamente. Non è
    cosí. Il Ludus Magnus, il grande gioco tra Bene e Male iniziato
    all’origine dei tempi, si concluderà vittoriosamente per l’uomo soltanto
    quando egli metterà in campo le armi dello Spirito: non per altra via, né
    con altri mezzi.
    Ovidio Tufelli -
      L'Archetipo.com
  
  
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