Gli omuncoli
  Ripreso da :
    Storia filosofica dei secoli futuri
  
  Ippolito Nievo
  a cura di Mariarosa Santiloni
  Fondazione Ippolito e Stanislao Nievo, Roma, 2013 E-Book Kindle
  Il titolo completo é:
  Storia filosofica dei secoli futuri fino all’anno 2222
  ovvero fino alla vigilia in circa della fine del mondo.
  Introduzione
  [...]
  Il desiderio di Nievo di frugare nel futuro
  - come acutamente osserva E. Russo nell’edizione della Storia filosofica da lui curata -
  era già evidente in una lettera del 1850 all’amico Attilio Magri,
  quando si definisce ‹‹ maledettissimo profeta ››
  e in seguito in un articolo del gennaio 1858 uscito su ‹‹
    Il Pungolo ››
  - alla testata giornalistica per cui scriveva - dove scrive :
  ‹‹
      Diavolo ! Come sarà messo il mondo pel capodanno del 2040 ? ››
  Sembra quasi l’antefatto a quello che pubblicherà due anni dopo.
  Al racconto, lo scrittore, con linguaggio vivace e con punte
    sarcastiche,
  affida le sue previsioni, a volte davvero inquietanti, sulle sorti dell’umanità dal 1860
    al 2222.
  [...]
  Nella storia si prevedono una serie di avvenimenti quali ‹‹
    L’unificazione dell’Italia,
  la nascita dell’Unione Europea, la laicizzazione della cultura,
  lo scoppio delle guerre mondiali, l’invenzione dei robot, la diffusione dei narcotici…
  e un profondo senso di noia che un mondo perfetto
  - per una umanità che perfetta non è e mai lo sarà -
  non può che portare con sé ››.
  La visione dello scrittore sul futuro, pur in un’ottica progressista
  dove scienza, tecnica e industria sono in equilibrio,
  oscilla tra l’ottimismo per il “ nuovo ”
  e un certo pessimismo legato alla natura umana concludendo che
  ‹‹ l’umanità può distruggersi tanto negando
  quanto entrando con troppa fiducia nello spirito
    tecnico-scientifico.»
  - Mariarosa Santiloni -
  Segretario Generale
    Libro Quarto
  
  
  
    Il caso, ovverosia l’attività umana individuale ed anormale, ha
      presieduto ai periodi storici della vecchia società; la nuova riconosce il
      suo sviluppo crescente e regolare dall’industria, ovverosia dall’attività
      umana collettiva e progrediente. Noi tocchiamo ora ad una rivoluzione
      scientifica che operò nel consorzio umano il maggior cambiamento che si
      sia mai operato; e dopo un’oscillazione spaventosa di alcuni lustri lo
      fermò stabilmente sulle basi incrollabili su cui esso adesso riposa.
      L’introduzione delle lingue articolate, la formazione delle famiglie, il
      trovato della navigazione, l’agricoltura, lo stabilimento delle città, la
      codificazione morale religiosa, il dogma dell’eguaglianza umana,
      l’invenzion della polvere e della stampa, il trionfo della libertà di
      coscienza, l’applicazione del vapore e dell’elettrico, l’assetto
      definitivo della nazionalità, la concordia democratica universale, e la
      sanzione sociale del diritto di viver bene aveano condotto l’umanità di
      metamorfosi in metamorfosi a non riconoscersi più nella sua forma
      originale. Ma la rivoluzione, di cui parliamo ora, sorpassa pel miracolo
      della causa e per grandiosità degli effetti qualunque altra opera abbia
      mai adescato l’immaginazione umana.
  
  
      Tutti s’avvedono come io alluda all’invenzione degli omuncoli detti
        anche uomini di seconda mano, o esseri ausiliari. La costoro creazione,
        non anteriore al nostro secolo di cento sessant’anni, si perde già nelle
        incertezze e nell’oscurità della favola; ma le migliori autorità
        s’accordano ad ascriverne il merito a Jonathan Gilles meccanico e poeta
        di Liverpool. Ecco al dire dei cronisti come andò la cosa.
    
  
      Jonathan Gilles e Teodoro Beridan erano vicini. Ambidue fabbricavano
        macchine da cucire; ambidue erano svegliati d’ingegno, poveri, viziosi
        ed invidiosi. Si spiavano vicendevolmente, per aver occasione di
        mormorare l’uno dell’altro, e rubarsi le pratiche, gli avventori e i
        segreti del mestiero.
    
  
      Tutto ad un tratto Beridan cominciò a condur vita ritirata, ad
        abbandonare le osterie dove usava frequentare assaissimo, a trascurare
        il solito commercio, e a non farsi vedere in bottega. Non scendeva quasi
        mai dal piano superiore della casa, e spesso ad ora tardissima della
        notte si vedeva splender il suo lume dalle fessure delle imposte. Ma
        egli s’accorse d’essere osservato, e tappò qualche fessura con tutto lo
        scrupolo; allora solamente qualche colpo di martello dava sentore per
        due o tre giornate che quella casa era abitata.
    
  
      Jonathan pativa tutti i supplizi dell’invidia. Cosa faccia mai Beridan?
        Qual macchina soprannaturale stia egli perfezionando ? Egli almanaccò
        tanto e poi tanto che per non diventar pazzo decise di cavarsi la
        curiosità ad ogni costo. S’inerpicò una sera sul tetto del vicino, si
        calò prudentemente per la canna del camino, e, dietro un parafuoco
        diligentemente traforato, stette ad aspettare la rivelazione del
        mistero. Egli sapeva che quello era appunto il camino del laboratorio di
        Beridan.
    
  
      Aspetta aspetta, costui entrò finalmente. Ma qual meraviglia per
        Jonathan al vedere che esso non era solo! Gli faceva compagnia un ometto
        pallido e stecchito, che moveva ad angoli retti le gambe e le braccia e
        in vece di voce faceva sentire un certo suono gutturale che assomigliava
        al linguaggio delle oche. L’ometto si piantò dinanzi al meccanico come
        un soldato che s’appresti ad imparar l’esercizio. "Siedi!" gli gridava Jonathan, e l’ometto sedeva. "Cammina!" e l’ometto camminava. "Scrivi!" e l’ometto sedeva allo scrittoio e vergava un paio di parole. "Sempre quelle due parole! non altro che quelle due parole!" sclamava il meccanico,
            "come ho a fare, come ho a fare perché nei suoi movimenti non prenda
            legge dalle molle che ha nelle giunture, ma dal bisogno del lavoro a
            cui s’accorge?"
    
  
      "Come puoi fare?" pensò Jonathan dietro al parafuoco, "bisogna eseguire congegni, molle, e apparati chimici sì delicati
              che sentano la differenza e il valore degli ostacoli in cui si
              abbattono e lavorino a seconda! Ah, tu hai fatto l’automa?...
              Piccino mio; e te ne accorgerai di qui a tre o quattro mesi! Io
              avrò fatto l’uomo!"
    
  
      Riguadagnò il tetto a furia di ginocchia, di colà rientrò in casa sua,
        e si mise a lavorare l’embrione dell’uomo, vale a dire l’automa. Ma fa e
        disfa, immagina, esegui e prova, quel benedetto automa non veniva mai.
        Il povero autore si sentiva la potenza di finirlo e non quella di
        cominciarlo; gli mancava la pazienza meccanica, a lui che possedeva in
        sì alto grado la sintesi scientifica! Tre mesi di lavoro lo trovarono
        sempre fermo sul primo passo; l’automa non si moveva, o dava un
        movimento convulsivo alla maniera d’un epilettico.
    
  
      Il povero Jonathan a capo chino bussò un giorno alla casa di Teodoro, e
        gli annunciò di avergli a comunicar cose della massima importanza.
        Teodoro lo introdusse, e sedettero uno per parte a lato del focolare.
        Prima per altro di aprirsi maggiormente, Jonathan volle l’assicurazione
        dal vicino che, se fosse necessario di unirsi tra loro per raggiungere
        qualche intento miracoloso, vi si sarebbero messi di buon animo, senza
        invidie, e senza litigi sul guadagno che sarebbe andato diviso per metà.
        Beridan assentì a tutto e si dispose ad ascoltare.
    
  
      "Ehi!" mormorò a malincuore l’altro, "ho trovato la maniera di far agire quasi liberamente in una data
            sfera d’azione una macchina umana artificiale".
    
  
      "L’avete trovata?" sclamò Beridan con un’occhiata di rabbia e di avidità.
    
  
      "Sì, l’ho trovata", soggiunse con enfasi Jonathan; "ma per metterla a frutto mi manca una cosa essenzialissima; mi
            manca la macchina umana, che, per quanto mi abbia provato in tre
            mesi, non son mai riuscito a compaginarla".
    
  
      "Non vi manca altro?" gridò Beridan buttandogli le braccia al collo. "La macchina umana l’ho bella e composta io. Guardate!" E aperse un armadio e ne fece uscir fuora l’automa dalla voce di
        oca.
    
  
      "Lo sapeva!" soggiunse maliziosamente Gionata, "che ora non è tempo né di confessioni né di complimenti; è tempo di
            accumulare le nostre scoperte, e di utilizzarle al più presto pel
            massimo nostro vantaggio. Con dieci di queste macchine noi
            diventeremo tanti Rothschild".
    
  
      Da quel colloquio in poi Jonathan e Teodoro lavorarono insieme
        rinchiusi misteriosamente nel gabinetto di quest’ultimo. I vicini
        mormoravano di questo curioso disparimento e li mettevano in canzone
        come due pazzi. Cessarono per altro gli scherzi quando i due creatori
        d’uomini uscirono alla luce del mondo col loro figliuolo, benissimo
        educato all’arte del calzolaio. Si erano combinati di adattarlo a questo
        mestiero, come quello che abbisognava d’un minor numero di movimenti. E
        lo strano omiciattolo, cui avevano imposto il nome di Adamo, lavorava
        giorno e notte senza cibo né bevanda, allestendo con esemplare assiduità
        buon numero di scarpe, stivali e perfino di stivaletti da signora.
    
  
      La società andò innanzi benissimo finché il lavoro occupò tutto il
        tempo dei due fabbricatori, ma quando ebbero confezionato in un mese una
        mezza dozzina di calzolai, siccome il guadagno era lautissimo, Beridan
        cominciò a correre le osterie, a bere delle gran pinte di porter, ed a
        giurare e spergiurare che gli sarebbe bastato l’animo di preparare in
        una settimana il miglior oratore del parlamento. Jonathan si dolse col
        collega di questo suo strano modo di procedere, che, propalando al
        pubblico la sorgente dei loro guadagni, gli avrebbe assoggettati a mille
        seccature e forse forse costretti a svelare altrui il meraviglioso
        segreto. Beridan oppose ch’era padrone del fatto suo; e a nuove
        rimostranze di Jonathan minacciò di insegnar gratis l’arte della loro
        fabbricazione, e di rovinare così il commercio comune. Jonathan tacque,
        ma siccome era uomo sofistico e risoluto, si ritirò a riflettere nella
        propria casa e non si fece vedere per tre giorni.
    
  
      V’immaginate voi in qual opera egli aveva impiegato quei tre giorni?
        Nel fabbricare un omuncolo congegnato a bella posta perché andasse a
        trovare il collega Beridan e gli piantasse venti buone coltellate fra le
        costole. Infatti così accadde; la forza muscolare dell’uomo non potè
        resistere alla forza meccanica dell’automa; e alle grida strazianti che
        si udivano accorsi tutti i vicini, trovarono il povero Beridan spirante
        fra le braccia d’un ometto giallo e scarnato che gli aveva crivellato il
        corpo di stilettate. Era più spaventevole ancora quello spettacolo,
        inquantoché intorno alla vittima ed al suo carnefice, sei calzolai
        lavoravano tranquillamente come non si accorgessero punto del misfatto
        che si commetteva. Ci volle molto accorgimento per imprigionare il
        piccolo assassino, e allontanare i sei calzolai dai loro banchetti, ma
        finalmente furono condotti in giudizio; ove chiarita la qualità del
        fatto e pur sembrando impossibile un tale miracolo si stette a lungo in
        dubbio se si dovesse ammettere o meno nell’uccisione di Beridan
        l’imputabilità morale. Alla fine il prudente giurì inglese convenne nel
        sentenziare a morte Jonathan Gilles; ma lo condannò come mandante d’un
        assassinio; e si volle condannare anche l’omuncolo meccanico alla pena
        della decollazione come reo di materiale omicidio premeditato e
        consumato. Jonathan si disponeva a subire il taglio della testa ed a
        portar nella tomba il suo segreto, non altri eredi lasciando che i sei
        calzolai e il piccolo suo correo già condannato all’eguale supplizio,
        quando la direzione della banca, il ceto degli onorevoli industrianti, e
        le migliori società del regno si commossero al timore che un’arte tanto
        singolare e che poteva cangiare sì profondamente le condizioni della
        umanità potesse andare miseramente perduta, e impetrarono dal re che si
        graziasse il colpevole della vita, purché egli dichiarasse ad una
        commissione di chimici, filosofi, economisti e ingegneri meccanici il
        segreto della sua fabbricazione.
    
  
      Potete credere che per quanto fosse rassegnato a morire Jonathan
        accolse di gran cuore la proposta; e da quel momento la fabbricazione
        degli omuncoli, o uomini meccanici, divenne una speculazione d’industria
        come qualunque altra. La facilità e la semplicità a cui si giunse in
        processo di tempo nella maniera di confezionarli, e la loro adattabilità
        ai più vari, dilicati e faticosi mestieri, li generalizzarono e ne
        abbassarono il prezzo per modo, che il loro numero uguagliò in breve il
        numero degli uomini reali. Ora esso lo sorpassa di molto, ed essendo la
        loro esistenza indefinitamente lunga fino alla logorazione della loro
        materia per lo attrito degli organi, il lavoro per la loro necessaria
        produzione è così minimo che può sembrare piuttosto un passatempo ed un
        utile esercizio ginnastico che altro.
    
  
      I cambiamenti che avvennero nello stato sociale ed economico, e la
        totale rivoluzione nelle solite condizioni dell’umanità in seguito alla
        moltiplicazione degli omuncoli si possono più di leggieri immaginare che
        descrivere.
    
  
      L’agiatezza e l’ozio cui poterono godere tutte le classi della società
        diedero una temporanea predominanza ai contadini, i quali mal pacificati
        ancora dalle ultime sconfitte nel campo politico, se ne vendicarono col
        far pesare legalmente sugli altri ceti la loro ignorante e tirannica
        maggioranza. Ma questo male non durò oltre il 2210; perché in
        quell’epoca, essendo già succedute due generazioni ai contemporanei di
        Gilles, gli ultimi cresciuti si trovarono in educazione ed in sentimenti
        così disformi dall’antica rozzezza e così simili alla civile cultura,
        che le differenze fra i diversi ceti scomparvero affatto. Solamente
        l’ozio guadagnava troppo nelle abitudini della società; e insieme
        coll’ozio l’uso dei narcotici come il tabacco, l’oppio e il betel, i
        quali facevano morire di stupidità un gran numero di cittadini. Quelli
        poi che volevano preservarsi da tali disgrazie e si davano allo studio,
        incorrevano facilmente in accessi cerebrali e morti improvvise per
        apoplessia nervosa; del qual malanno i medici incolpavano la soverchia
        attività concentrata tutta nel cervello per due o tre generazioni.
    
  
      Fino al 2140 gli uomini s’erano dati a fabbricare solamente omuncoli
        maschi, ma in quell’anno un figlio di Gionata Gilles, erede d’un suo
        segreto, si disse che arrivò a fabbricare un omuncolo femmina, o
        donnuncola. Gli economisti furono assai spaventati di questa innovazione
        che minacciava il genere umano di sterilità procurando un surrogato alla
        donna. Per cui il figlio di Gilles fu tenuto d’occhio finché visse,
        perché non potesse comunicare altrui quella pericolosissima scoperta. E
        dopo che egli fu morto, siccome il segreto di quella fabbricazione
        pareva tutto consistesse in un certo lievito di fegato di gatta,
        Gregorio Alison presidente del decimo congresso dell’umanità, ordinò la
        distruzione di tutta la razza felina. La sentenza fu eseguita
        puntualmente, e i diritti delle donne furono salvi, ma la terra fu
        inondata da una quantità molestissima di topi.
    
  
      Le guerre, le dispute e le discussioni religiose a proposito degli
        omuncoli sarebbero assai lunghe a narrarsi. Basti il dire che il papa di
        Roma scomunicò nel 2180 tutti quelli che ne fabbricavano; e poi vedendo
        che il divieto fruttava poco, ordinò in dubbio che quelle creature
        fossero battezzate, per salvarle dalla dannazione se erano in qualunque
        modo animate, e per toglierle alla balia di Satanasso se non erano altro
        che strumenti dell’attività umana. Con queste due scomuniche si chiuse
        il bollano dei pontefici che abbracciava diciotto secoli, dal secolo Vº
        dell’era volgare al XXIIIº: ma la prima e più lunga parte era stata
        compresa nella distruzione libraria del 2030.
    
  

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