Cantoterapia
Il canto Werbeck
Il canto non appartiene alla dimensione fisica ma a quella eterica.
Noi ascoltiamo i suoni con l’orecchio fisico, ma il canto che si leva dalle
corde vocali umane
è ben diverso da quello di ogni altro strumento costruito dall’uomo.
Persino il motivetto che si canticchia a fior di labbra,
per accompagnare un lavoro o un’incombenza pratica,
ci collega sempre al mondo che sta oltre quello materiale.
Quando una voce cristallina s’innalza verso le vette degli acuti,
o un coro unisce le voci in melodie all’unisono o polifoniche,
c’è una rispondenza in chi ascolta
che si dirama dall’orecchio alla laringe per giungere direttamente ai
precordi:
il cuore reagisce allora con un’emozione profonda,
perché riconosce un luogo che gli è congeniale, di natura
sovrasensibile.
Diceva
Massimo Scaligero
che in passato gli uomini non parlavano ma cantavano.
L’espressione dei sentimenti era modulata dalle intonazioni del
canto
e arrivava al cuore di chi ascoltava in maniera diretta,
senza necessità di lunghi giri di frase per quanto si voleva
esprimere.
Poi lentamente
il canto perse quella particolare vibrazione che comunicava direttamente
da cuore a cuore,
per giungere a una sonorità quasi monotonale, comunicando così solo da
mente a mente.
Gli antichi aedi, i rapsodi, i vati, i cantori come Omero, narravano le
gesta eroiche, epiche o mitologiche accompagnando il canto con uno
strumento a corde. Quel canto forniva la suggestione dell’azione che si
voleva far rivivere, e gli ascoltatori assecondavano con movimenti del
corpo il ritmo del canto.
Quando il canto dei poeti perse la melodia, divenendo prosa, in
particolare presso i Romani, si diede risalto alla metrica. Gli uditori
battevano il piede in terra ad ogni accentazione della parola, conservando
cosí il ritmo che sottolineava lo svolgimento del tema trattato.
Per fare un esempio, possiamo trarre alcuni versi dalle
Metamorfosi di Ovidio (VIII vv.183-187) in cui Dedalo, prigioniero
di Minosse, vuole fuggire per la nostalgia di casa, e dice al figlio Icaro
che anche se Minosse possiede la terra e chiude l’accesso al mare, il
cielo è libero e da lí fuggiranno.
Daèdalus íntereà Cretèn longúmque
peròsus
éxiliúm tactúsque locí natàlis
amóre,
clàusus eràt pelagó. «Terràs licet»
ínquit «et úndas
óbstruàt, at caèlum cèrte patèt.
Íbimus íllac;
òmnia póssideàt, non pòssidet àera
Mínos».
Possiamo immaginare il trepestío degli ascoltatori che seguivano gli
accenti metrici, e inoltre, pure se il ritmo era conservato, non lo era la
melodia degli antichi aedi.
Il canto però ha continuato ad accompagnare la civiltà umana,
differenziandosi per epoche, popolazioni e territori, fiorendo, ad esempio,
con il belcanto operistico, soprattutto italiano, a partire dal XVI secolo.
Gli appassionati del canto lirico spesso non sanno il perché di questa loro
passione. È come la nostalgia di un luogo che credono di riconoscere a
tratti ma che poi sfugge, e devono riascoltare quel canto per
ritrovarlo.
Diceva ancora Massimo Scaligero che la parola dovrà ritornare canto, cosí
come la prosa dovrà ritornare poesia. Se l’uomo ripristinerà il contatto con
il divino, la parola acquisterà una nuova armonia che potrà, in un tempo
futuro, divenire celestiale. Gli angeli non parlano, cantano. Alcuni
Iniziati e santi del passato hanno raccontato di aver ascoltato
l’incantevole sonorità dei cori angelici, quella che anticamente diversi
viandanti avevano potuto sentire attraversando il bosco della località di
Assisi che da quel coro prese il nome: Santa Maria degli Angeli.
Si è potuto osservare che alcuni bambini con disturbo dello spettro
autistico, che presentano difficoltà di comunicazione verbale, nell’intonare
una melodia riescono con il canto a pronunciare parole ben scandite.
Anche per gli anziani il canto può essere molto positivo. Cantare insieme
promuove la socialità, migliora l’attenzione e rallenta il processo di
invecchiamento. Immergendosi per attimi nell’eterico, al momento del canto,
ci si ricarica di una vitalità che restaura il fisico e migliora il tono
psichico.
Nel numero dell’Archetipo di febbraio 2003, la grande soprano
Marissa Brumby ha trattato con
estrema competenza e precisione il “canto Werbeck”, un particolare sistema di emissione del suono vocale. Fu elaborato e
messo a punto dalla cantante lirica
Valborg Werbeck-Svärdström, la quale, dopo aver riportato una paralisi alle corde vocali, riuscì con
questo metodo a recuperare pienamente la voce. Si consultò anche con Rudolf
Steiner, il quale la incoraggiò a proseguire il lavoro di insegnamento al
quale lei si era volta con grande dedizione, ottenendo ottimi risultati nei
tre campi di applicazione: artistico, pedagogico e terapeutico. Interessante
il filmato che illustra il metodo in maniera molto approfondita.
Il canto non nasce e si sviluppa per esprimere concetti filosofici o
codici alfanumerici, ma per manifestare tutta l’intera gamma dei
sentimenti umani: dalla gioia alla tristezza, dalla soddisfazione alla
disperazione, dal desiderio di evasione alla nostalgia per luoghi e tempi
che non ci sono piú, dall’amore vissuto in letizia all’abbandono vissuto
in mestizia… tutto suggerisce a chi ascolta il sentimento che quel canto
vuole significare.
Più ci applicheremo con costanza e impegno a un lavoro interiore, piú il
nostro canto potrà arricchirsi di intonazioni, coloriture ed espressioni che
prima sarebbe stato impossibile manifestare: potrà divenire come quello
dell’allodola o dell’usignolo che, come ci dice Rudolf Steiner ne La
missione universale dell’arte, inviano i loro gorgheggi fino in alto del
cosmo, e da lí quel canto ci torna come benedizione del Cielo.
- Marina Sagramora -
L'Archetipo - Marzo 2024
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